venerdì, Ottobre 4, 2024
Napoli

Tuffi non balneabili e città immobile, accelerano solo le disuguaglianze

Il mare sta sempe llà. Tutto spuorco, chino ‘e munnezza e  nisciuno ‘o vo’ guardà. Chissà se nel 1979, quando uscì il suo secondo album, che conteneva la canzone Il mare, Pino Daniele immaginava che quasi mezzo secolo dopo il mare sarebbe stato ancora là, pieno di munnezza.

E che pur essendosi moltiplicati gli occhi e l’attenzione di quelli che guardano, non è avvenuto nel senso risolutivo che lui attribuiva a quello sguardo. No, probabilmente non si sarebbe stupito, Pino. Era troppo napoletano per ignorare la sindrome dell’immobilismo che attanaglia la città e le permette al massimo di procedere con un passo sempre troppo lento. Oppure, di far accelerare solo le disuguaglianze.

Al comune dicono che il mare inquinato di questi giorni è comunque un fenomeno temporaneo. Scarichi imprevisti dalle navi o da terra, la pioggia, le fogne, le correnti. Non lo sappiamo, ammette candidamente il superassessore Cosenza che ha anche la delega al mare. Quando fa l’elenco delle possibili cause ne elenca così tante che quasi ci si aspetta aggiunga, alla John Belushi, l’invasione delle cavallette.

Fortunatamente non avviene, ma intanto in acqua continuano a tuffarsi a migliaia. Incuranti dei provvedimenti che oscillano fra il vietato di via Partenope – da Castel dell’Ovo a piazza Vittoria – e lo sconsigliato di Marechiaro. Ci si tuffa proprio come se niente fosse. Come se a nessuno importasse. Né a chi si immerge in un mare che alterna poco rassicuranti toni grigiastri, macchie verdognole, schiumetta e striature marroncine, né a chi dovrebbe vigilare. Proprio come ai tempi di Pinotto. Come gli amici chiamavano confidenzialmente il giovane Pino Daniele quando camminava per le strade di Santa Chiara e i cartelli col divieto di balneazione erano involontari e buffi elementi dell’arredo urbano.

E se nella Napoli di quegli anni il fatto non era neanche sorprendente, oggi dovrebbe almeno stupire. Ma non accade. A Bagnoli, per esempio, dove l’inquinamento non è temporaneo ma permanente come il divieto di fare il bagno, ci sono ogni giorno decine di persone in acqua, soprattutto bambini, impegnate in tuffi non balneabili, che poi diventano centinaia nel fine settimana. Alla luce del sole. Letteralmente, è il caso di dirlo.

Perfino giovedì 30 giugno c’era chi si tuffava a poche decine di metri dal sindaco Manfredi e dallo stesso assessore Cosenza, alla riapertura della spiaggia comunale di Bagnoli dopo 15 anni di chiusura. L’area è separata dal mare da una scogliera artificiale bianca che funge da barriera proprio per impedirne l’accesso. Tuttavia, a brevissima distanza, c’è una lingua di sabbia sempre pubblica che forma con la scogliera antistante due suggestive conche speculari, dove non sembra vigere alcun divieto di fatto. Neanche in presenza della massima autorità cittadina. Non controlla nessuno. Esatto, proprio come se niente fosse. Perché accada tanto a Bagnoli che in altri di costa cittadini interdetti alla balneazione, resta un mistero. Sembra quasi ci sia timore che, facendo rispettare i divieti, poi i cittadini pretendano soluzioni per il mare negato. Soluzioni che le istituzioni non sono in grado di fornire.

All’assessore Cosenza va comunque riconosciuto di aver mantenuto la promessa della riapertura in tempi brevissimi, pochi giorni dopo l’annuncio a mezzo stampa. Aver sfilato la seducente elioterapia dal mazzo del futuro perennemente prorogabile, è una cosa inusuale per la politica cittadina, e va sottolineata. Sarebbe tutto perfetto, se solo quella fosse davvero una spiaggia. Si tratta invece di un’area in riva a un mare non balneabile che dà la netta sensazione di essere stata spianata in fretta e furia alla bell’e meglio per rispondere alla pressione di chi invoca invece il mare libero, gratuito e pulito in città. C’è la ragionevole certezza che non vedremo mai neanche uno dei nostri amministratori a prendere il sole su quel pezzo di costa a Bagnoli.

Certo, ci sono due docce all’aperto, ci sono i bagni, l’accesso per i disabili, una pedana di legno scoperta e una con tettoia per regalare un po’ di ombra ristoratrice, visto il divieto di piantare ombrelloni. E poi? Sassi e ciuffetti d’erba che affiorano fra il terriccio, con una ipnotica e rassicurante regolarità lungo tutta la superficie. Venerdì, il primo giorno di apertura al pubblico, c’erano quattro persone. Poche decine in tutto anche nel fine settimana appena trascorso, perché chi può va nei lidi privati e chi non può preferisce la spiaggetta adiacente dove fa il bagno incurante di ogni divieto e pericolo.

Del resto, il confronto con gli stabilimenti balneari di fianco è improponibile. In ordine sparso, spiaggia perfettamente spianata senza pietre o erbacce, prato artificiale, piscina, campo di pallavolo, bar, un ristorante. Solo le urla dei bambini che provengono dalla piscina a pagamento sono uguali a quelle dei loro coetanei che fanno il bagno gratis fra i veleni. Quei metalli pesanti lasciati in eredità da un’industrializzazione tardiva durata troppo poco per cambiare davvero la composizione sociale e l’anima della città. E non potrebbe esserci immagine più cruda della disuguaglianza.

Al di là dell’inquinamento, si spera temporaneo di questi giorni, il tema resta quindi quello del mare per censo. Poche spiagge in generale, quasi tutte private e costose, con una risibile percentuale di spiaggia libera. Un problema che non potrà certo essere risolto col pannicello caldo dell’elioterapia di Bagnoli. È una questione antica, ma allo stesso tempo uno dei simboli più evidenti della Napoli post pandemia, dove per altri aspetti la ripresa con maggiore vigore dei flussi turistici sta inasprendo le storiche separazioni nel corpo cittadino, alle quali pur ci si è abituati nel corso del tempo.

Una dinamica impetuosa che nelle mani del laissez faire del mercato rischia di lacerare quel che resta della coesione sociale di una città eternamente immobile. Dove però ora accelerano solo le disuguaglianze.

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