Londra Napoli Italia, un confronto fra prezzi e salari e la necessità del salario minimo
«Quando leggo di stipendi di 700 o 800 euro al mese a Napoli e altrove in Italia, come risultato di paghe orarie sotto i 5 euro l’ora, faccio fatica a crederci». Così racconta Pasquale, che è napoletano e vive da 22 anni a Londra.
Dal 2010 è titolare con il suo socio Angelo di Santa Maria Pizzeria. «Qui un lavapiatti non prende meno di 12 sterline l’ora, un cameriere dalle 13 alle 17 sterline e un pizzaiolo fra le 20 e le 22. Si fa comunque fatica a trovare personale, nonostante paghe regolari, contributi, 28 giorni di ferie l’anno, anche erodendo quote di profitto del nostro business».
Nel tempo, le pizzerie sono diventate cinque. Un’idea di base semplice, come lo sono spesso quelle vincenti: esportare la vera pizzeria di quartiere a Londra. «Siamo stati i primi – spiega – perché c’erano già dei ristoranti italiani e napoletani che facevano anche la pizza, o la pizza di alcuni grandi catene, ma noi volevamo creare proprio la classica pizzeria che c’è sotto casa a Napoli, col forno a legna che fa pizze e qualche sfizio».
Con un investimento iniziale di 60 mila sterline, messe da parte facendo prima i lavapiatti e poi i camerieri, aprono e se la giocano. Tra i primi clienti infatti ci sono diversi giornalisti della Bbc, la tv pubblica britannica, che ha gli studi nello stesso quartiere londinese di Ealing. Molti sono stati a Napoli e a Sorrento e sanno cos’è una pizza napoletana. Da lì parte il passaparola che regala alla pizzeria una inaspettata visibilità mediatica. Il resto lo fa la popolarità conquistata sul campo, alla quale contribuisce anche la comunità italiana che vive in zona perché la pizza è una vera pizza. La stessa che si mangia a Napoli.
Sulla scia di Santa Maria, hanno aperto tante altre pizzerie a Londra. Da qualche anno, sono sbarcati anche big come L’Antica Pizzeria da Michele e 50 Kalò. Così che mangiare una vera pizza in città è diventato quasi normale come a Napoli. Naturalmente, andando nei posti giusti.
Ma lasciamo stare la pizza e torniamo ai numeri. Nel Regno Unito esiste un National Minimum Wage, un salario minimo per legge, che il 1° aprile di quest’anno è stato portato a 10,42 sterline l’ora, pari a circa 12 euro. Rispetto allo scorso anno c’è stato un incremento di 92 pence, poco più di un euro, quindi una crescita del 9,7%. L’inflazione è arrivata anche al 12%, ma è proprio di questi giorni la notizia che è scesa al 7,9%. Il miglior dato registrato da diversi mesi a questa parte. In sostanza, il salario minimo ha quasi tenuto il passo dell’aumento dei prezzi. «Il punto è che nessuno viene a lavorare a minimum wage – conclude Pasquale -. Forse in altre zone del Regno Unito meno care, ma non a Londra».
Il neosegretario di Forza Italia Antonio Tajani ha invece liquidato qualche giorno fa la proposta delle opposizioni di un salario minimo a 9 euro lordi come «veterosocialista». Non siamo mica in Urss, ha detto. Precisando poi che lui vuole fare la rivoluzione liberale in modo da dare ai lavoratori «un salario ricco, non un salario minimo». Nel frattempo però in Italia, soprattutto nel turismo e nella ristorazione, tanti continuano a lavorare anche a 3, 4 o 5 euro l’ora.
Tajani è anche ministro per gli Affari esteri, saprà sicuramente che il Regno Unito non è una repubblica socialista, ma anzi un paese ultracapitalistico governato quasi sempre dalla destra, che anche attualmente ha un primo ministro conservatore come Rishi Sunak. Lo sa sicuramente anche il ministro della Protezione civile Nello Musumeci di Fratelli d’Italia, che proprio stamattina ha dichiarato che il salario minimo è «assistenzialismo». Ma cosa c’entra una giusta paga con l’assistenzialismo? Secondo il loro ragionamento, sarebbero l’Urss e farebbero assistenzialismo anche gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, la Spagna e la grande maggioranza degli stati membri dell’Unione Europea, tutti paesi dove il salario minimo esiste?
In Italia invece, al di là del goffo tentativo di Tajani di imitare il fu Berlusconi nel gioco di prestigio di resuscitare il comunismo senza averne né il talento né il carisma, la destra al gran completo aggredisce con un emendamento soppressivo già in commissione Lavoro la proposta di salario minimo. Non può bastare come risposta che c’è la contrattazione. Soprattutto se i contratti non vengono rinnovati da anni e diversi contratti collettivi hanno paghe ben al di sotto del minimo proposto dalle opposizioni. Una vicenda sulla quale anche i sindacati dovrebbero dare delle risposte, invece di arroccarsi dietro la Linea Maginot della contrattazione. Fortificazione che, come è noto, fu facilmente aggirata dall’esercito tedesco nella Seconda guerra mondiale.
La destra non vuole neanche far approdare la discussione in Parlamento perché sa che la grande maggioranza degli italiani è a favore del salario minimo. Lo attestano numerosi sondaggi realizzati in questi giorni, troppi per citare anche solo i più autorevoli. Anzi, gli italiani, che sono favorevoli in una percentuale variabile ma comunque sopra il 70% in tutti i sondaggi, credono che i 9 euro siano netti e che sono pure pochi, puntando al bersaglio grosso dei 12 euro l’ora. Perfino più radicale dei 10 euro lordi proposti da Potere al Popolo e De Magistris, dipinti dai media come pericolosi bolscevichi.
Perché? Perché gli italiani vanno a fare la spesa, non mandano i loro collaboratori domestici, quindi sanno che 12 euro l’ora sono una cifra appena sufficiente per vivere dignitosamente. E, sorpresa delle sorprese, è favorevole anche la grande maggioranza degli elettori di destra che evidentemente pure va a fare la spesa e si rende conto che gli stipendi non sono adeguati al costo della vita. Soprattutto quelli di Fratelli d’Italia, dopo gli anni di opposizione in cui la Meloni ha indossato i panni della Giovanna d’Arco dei poveri. Salvo poi levargli pure il Reddito di Cittadinanza una volta diventata Premier.
È inutile girarci intorno, al di là di ogni chiacchiera sulla destra sociale, quella italiana non è solo neoliberista, ma anche tenacemente legata a un modello che lega la produzione della ricchezza a uno sfruttamento della forza-lavoro che quasi ne intacca la sua capacità di riprodursi in quanto tale. Un modello che ha affossato l’Italia nella competizione con gli altri grandi paesi europei, con le gravi responsabilità nella deregulation del lavoro anche della sinistra di governo dal Pds ai Ds al Pd, si spera, pre Schlein.
Tornando al confronto con il Regno Unito, si potrebbe obiettare che lì la vita costa molto più cara che da noi. Le statistiche lo confermano, con tutte le difficoltà derivanti dal confronto tra città diverse all’interno dello stesso paese, dei parametri e della valuta utilizzata. Londra va paragonata a Milano e a Roma, piuttosto che a Napoli che è più assimilabile a Liverpool, Manchester o Newcastle. Eppure, un’italiana che vive a Londra ha realizzato un’indagine sul campo dagli esiti sorprendenti.
Giulia Saravini Lazzarotti è di Massa Carrara e vive a Londra. Laurea in Scienze della Comunicazione a Pisa e master in Digital Journalism alla prestigiosa Goldsmiths University. La Saravini Lazzarotti ha messo a confronto tre supermercati italiani e tre inglesi, in un video pubblicato su Youtube dal titolo “Supermercati Londra vs Italia: Dove spendo meno?“. Da una parte Esselunga, Conad e Lidl Italia. Dall’altra Ocado, Asda e Lidl UK, convertendo poi i prezzi inglesi da sterlina in euro. Su una stessa lista di prodotti il costo totale è risultato di 120,05 euro per Esselunga, 113,92 per Conad e 98,37 per Lidl Italia, a fronte dei 122,53 euro di Ocado (che consegna a domicilio), i 109,23 di Asda e gli 88,50 di Lidl UK.
Fare la spesa a Londra, la città più cara del Regno Unito, costa leggermente meno che in una città di provincia italiana. Con la differenza che lì nessuno guadagna meno dell’equivalente di 12 euro l’ora e qui da noi cinque milioni di lavoratori portano a casa 3, 4 o 5 euro. Chissà cosa ne pensano Tajani, Musumeci e la paladina dei poveri, Meloni.